In un passato non troppo lontano, la figura del responsabile della sicurezza era associata a compiti prevalentemente operativi: controlli agli accessi, sistemi di videosorveglianza, gestione delle emergenze. Oggi, quell’approccio non basta più. L’evoluzione del rischio, sempre più ibrido e sistemico, ha trasformato radicalmente il ruolo del Security Officer, richiedendo un cambio di paradigma: da custode della sicurezza a stratega del rischio.

La crescente interconnessione tra minacce fisiche, digitali e reputazionali, insieme alla pressione normativa e agli standard ESG, ha ridefinito le priorità delle aziende. La sicurezza non è più un costo da contenere, ma un investimento che tutela l’integrità del business. In questo scenario, il profilo professionale del security manager si è trasformato in quello di un Risk Strategist, chiamato ad operare in modo trasversale ed integrato.

Dal perimetro fisico al rischio aziendale

Oggi i rischi non si manifestano più solo sotto forma di furti, incendi o accessi non autorizzati. A compromettere la continuità operativa di un’azienda può essere una vulnerabilità informatica nella catena logistica, un attacco reputazionale partito da una fuga di informazioni interne, un fornitore terzo non conforme agli standard di sicurezza.

Il Risk Strategist è quindi chiamato a governare un ecosistema complesso, che va ben oltre il perimetro fisico dell’azienda. Deve dialogare con l’IT per valutare le minacce cyber, con il legal per le implicazioni compliance, con l’HR per la gestione del rischio interno, con il procurement per mappare i rischi di fornitura. In molte realtà, siede nei comitati di crisi o partecipa direttamente alle attività del risk committee aziendale.

Nuove competenze per un nuovo ruolo

Questa evoluzione comporta un cambio radicale delle competenze richieste. Non bastano più l’esperienza nei sistemi di sicurezza o la conoscenza delle normative di settore. Il Risk Strategist deve possedere una visione sistemica del rischio, padroneggiare strumenti di analisi predittiva, conoscere i principali framework internazionali (ISO 31000, DNV, NIST), saper leggere dati, costruire KPI e rappresentare scenari di impatto per il top management.

Fondamentale è anche la capacità di comunicare: saper “tradurre” il rischio in linguaggio aziendale, coinvolgere gli stakeholders interni, alimentare una cultura del rischio diffusa, e contribuire alla brand protection dell’azienda. In tempi in cui il valore reputazionale è un asset, la sicurezza è sempre più vicina al marketing strategico.

Non basta essere leader: servono competenze tecniche reali

Un equivoco ancora troppo diffuso è quello secondo cui un buon security manager debba limitarsi a saper gestire un team, distribuire task e presidiare i KPI. In realtà, la crescente complessità del contesto richiede che chi guida la funzione sicurezza non sia solo un people manager, ma anche un tecnico competente, capace di operare da individual contributor quando necessario.

Le sfide attuali impongono una comprensione diretta e concreta dei meccanismi di funzionamento della sicurezza: saper leggere una configurazione di access control, valutare la copertura reale di un impianto di videosorveglianza, comprendere un log di sistema, analizzare un flusso logistico per individuare vulnerabilità operative, gestire una piattaforma di incident management o interpretare correttamente dati investigativi.

Non si tratta di tornare a “fare tutto da soli”, ma di sapere di cosa si parla - con la stessa padronanza di chi, sul campo, risolve i problemi. In un mondo in cui la security è sempre più integrata con tecnologia, compliance e operations, il leader che non possiede competenze tecniche rischia di diventare un collo di bottiglia, incapace di valutare le soluzioni proposte, supportare decisioni critiche o dialogare alla pari con gli altri stakeholder.

Essere strategici non significa solo alzare lo sguardo: significa anche sapere mettere le mani dentro al rischio.

Security, ESG e sostenibilità: un’alleanza necessaria

Il Risk Strategist trova oggi una sponda naturale nell’evoluzione ESG. I temi ambientali, sociali e di governance richiedono presidio e trasparenza. La gestione dei rischi connessi ai diritti umani nella supply chain, alla sicurezza dei dati personali, alla tutela dei lavoratori e delle comunità locali diventa parte integrante della missione aziendale. E la funzione Security, in questa cornice, non può restare ai margini.

Dove una volta vi erano solo controlli e barriere, oggi vi sono strategie, metriche e accountability. Le aziende che hanno deciso di affrontare questa transizione con lucidità stanno già investendo su profili professionali in grado di fare da ponte tra compliance, sostenibilità e resilienza. Il Risk Strategist è uno di questi.

Un ruolo in ascesa, ma ancora sottovalutato

Nonostante questo evidente cambio di passo, in molte organizzazioni la figura del security manager continua ad essere sottovalutata o relegata a ruoli di seconda linea. Un errore strategico, che rischia di lasciare scoperti presìdi fondamentali proprio nel momento in cui il rischio si fa più liquido e pervasivo.

Riconoscere il valore del Risk Strategist non è un atto formale, ma una scelta organizzativa che riflette la maturità dell’impresa rispetto alla gestione del rischio. Significa collocarlo nei luoghi decisionali, dotarlo di risorse, ascoltarne le analisi. Significa, in ultima analisi, accettare che senza un governo intelligente della sicurezza, non può esistere né compliance, né crescita sostenibile.

Riguardo all'autore

Esperta in Security e Risk Management, con una formazione nella Guardia di Finanza e un’esperienza consolidata nella prevenzione delle frodi, nelle investigazioni aziendali e nella compliance normativa. Attualmente ricopre il ruolo di Senior Manager, Risk – Global Investigations & Security Operations presso Amazon, dove è responsabile di attività investigative su scala globale, protezione degli asset aziendali e sviluppo di strategie di mitigazione del rischio.

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